La Storia

Musolesi, un toponimo misterioso (ma non troppo)

Musolesi: così si legge nel cartello indicatore colocato all’entrata del nostro borgo – ma il catasto Boncompagni (1870) riporta il toponimo Borgo Musolesi. Nomi entrabi errati. Perchè la memoria orale, di quando cioè tutti si parlava il dialetto, ha tramandato la dizione Musles / Musolesi, senza prefissi o aggiunte. Dicevano infatti: a vòg a Musles, a son ed Muslés / Vado a Musolesi, sono di Musolesi.
I nomi dei luoghi (toponimi, da greco ‘tòpos luogo e ònoma nome’) offrono assai spesso testimonianza d’insediamenti millenari, ricordo di genti scomparse che li hanno abitati e di cui nulla rimane se non il nome dato a un corso d’acqua o alla cima di una montagna. E i toponimi di fiumi e di monti sono appunto le diciture geografiche più antiche, quasi fossili linguistici consegnati al ricordo delle generazioni che si sono succedute sul territorio. Più recenti e databili sono invece le denominazioni dei centri abitati, delle singole case, dei campi.
Una ricognizione toponomastica della parrocchia o frazione di San Benedetto può dirci qualcosa della nostra storia. Rio Maggio,  nome che parrebbe appartenere a una poetica Arcadia, deriva in realtà dal latino maior, maggiore, essendo che il torrentello è in effetti il maggiore dei rii che affluiscono nel Sambro. Sambro potrebbe essere etimo pre-romano. Esiste infatti un tema sar proprio dell’antica area linguistica mediterranea col significato di corso d’acqua. San Benedetto rimanda a fondatori monaci benedettini, ma la tesi è tutta da dimostrare, mentre si sa di un monastero del Voglio e di altri in montagna dipendenti dalla potente abbazia di Nonantola.
Poggio dé Rossi (o Poggio Rosso, come già compare in un etimo del 1303) è denominazione medioevale dovuta, secondo alcuni studiosi, a una nobile famiglia bolognese che avrebbe retto la terra per conto del Comune di Bologna (a Sasso si ammira ancora il Palazzo de’ Rossi). Ma il fatto che la prima e più antica dizione fosse Poggio Rosso o Russo fa invece supporre che il nome fosse dato al luogo per l’appariscente colore rossastro della terra arata.
Collina è il nome che i vecchi davano e noi diamo al monte, sulle carte distinto come Galletto, lungo le cui pendici è sorto il paese.
Di facile comprensione – e del resto non rimandano a tempi molto lontani – i toponimi dei borghi che accolsero i primi attuali insediamenti: La Serra, La Valle, Ca’ de’ Merzari, Ca’ di Lucchini, San Martino, La Chiesa……La Serra e la Valle sono nomi diffusi un pò ovunque in montagna e descrivono una situazione paesaggistica che si ripete: un borghetto in alto, l’altro più in basso, quasi a guardarsi. Ca’ de’ Merzari sottolinea l’attività commerciale che i suoi abitatori vi svolgevano: prossimo alla chiesa parrocchiale, il luogo era frequentato quanto meno la domenica e dunque favorevole a un piccolo commercio. Ca’ di Lucchini rimanda al cognome della famiglia che vi abitava – Lucchini non compare per tutto il ‘700, prima infatti la località figura come Ca’ di Bonini, proprietari nel ‘600 di ben 43 “pezze di terra”. San Martino è dedicato a santo fra i più venerati nel Medio Evo, mentre la Chiesa (di là dal fosso, cioè del Rio Maggio) testimonia che lì sorgeva la chiesa della parrocchia di San Cristoforo di Poggio de’ Rossi, prima che venisse aggregata nel 1533 a quella di San Benedetto.
Più misterioso, a tutta prima, il toponimo Musolesi. In realtà di chiara comprensione, come diremo di seguito.

I Musolesi, gente che arriva dal Mugello

Un tempo fatti e conoscenza si tramandavano a bocca – quel che culturalmente dicesi tradizione orale – e più d’una volta ho sentito dai vecchi, soprattutto di Musolesi, che il da noi diffusissimo cognome Musolesi altro non voleva significare che gente del Mugello, Mugellesi appunto. Gente che in tempi lontani – io dico Medio Evo, ma non era questa l’espressione usata, altra dalla nostra – aveva lasciato la Toscana e scavallato l’Appennino per stabilirsi nella valle del Sambro, allora poco abitata. Fossero fuoriusciti, famiglie cioè esiliate a seguito delle faide che insaguinavano i comuni (Dante ne è il grande testimone), fossero persone che fuggivano dalla peste che infestavano i centri popolati (Boccaccio racconta la peste del 1348 a Firenze), fossero contadini e pastori che cercavano nuovi pascoli e terre da dissodare….(Fanti, cioè uomini da fatica, e Vaccari, guardiani di bestiami, i primi cognomi della nostra valle a detta di Rumanin d’Ambròs, autorevole memoria storica di San Benedetto fin che le fonti orali non si sono inaridite per sempre). Che i Musolesi fossero famiglie di ceppi diversi e che il loro non fosse inizialmente un cognome parrebbe dimostrarlo il fatto che non rammentavano e non rammentano una parentela nemmeno lontana: v’erano e vi sono Musolesi alla Serra, a Cà di Gugliara, al Fornello e ovviamente a Musolesi, che non hanno tra loro legami di sangue. Dunque Musolesi è un aggettivo, come Tedeschi, Catalani, Napolitano.
Fin qui ricordi e testimonianze a voce. Ma esistono documenti. Io stesso – essendo parroco don Alberto Marchioni – ho consultato i registri dei battesimi custotoditi nell’archivio della parrocchia  di San Benedetto alla ricerca di informazioni sul nostro passato. Ecco di seguito quel che ho scoperto in proposito.
Il più antico registro inizia con la data 20 febbraio 1640 e Angelo è il nome del primo battezzato trascritto, figlio di Domenico Giovanni Vaccari (il che confermerebbe le asserzioni di Romanino d’Ambrogio) e di sua moglie Elisabetta. Non è riportato il cognome della madre. Solo ai primi del ‘700 compaiono infatti nei registri i cognomi originari delle mogli a testomoniare la perdurante sudditanza della donna, prima al padre e ai fratelli poi al marito. Del resto non tutte le famiglie hanno ancora in quel periodo un cognome ereditario. V’è qualche padre di neo-battezzato indicato col semplice nome, senza altra aggiunta. Altri sono specificati soltanto dal mestiere. Compaiono, ad esempio, un Gabriele fabbro e un Giovanni detto il tintore. Alcuni presentano il primo nome seguito da un secondo che è forse il patronimico e che comunque è già cognome o sta per diventarlo. Vi è comunque un Giorgio de Porziola, lo si cognominava cioè dalla località donde proveniìva, come appunto i nostri Musolesi. Infatti ancora nel 1667 leggiamo – in latino nei registri – il cognome Muselesis (se anziché so, come oggi) e nel 1725 addirittura Musellessi. La credenza che i Musolesi di oggi fossero antichi toscani del Mugello pare veritiera: perchè Mugellesi, detto alla toscana, si pronuncia Muséllesi, con un suono dolce fra ge se, e il buon parroco d’allora avrà trascritto in modo approssimativo quel che udiva. Nel tempo la grafia si è modificata e consolidata sotto l’influsso della nostra parlata che aveva cancellato il toscano: in dialetto diciamo infatti Muslés, tradotto dai parroci in Musolesi.
Toscani del Mugello emigrarono dunque da noi secoli fa e un copiscuo gruppo si stabilì su un poggio a destra del Sambro, di fronte a Sant’Andrea: la terra attorno era per gran parte in pendio e bene esposta, e v’era acqua sorgiva abbondante, come ancora testimonia l’abbeveratoio con l’ormai leggendario Sant’Antonio Abate. Forse disboscarono loro stessi i terreni a ‘solano’, mentre conservarono a macchia e castagneto quelli a ‘baguro’. E cominciarono a costruire con legno e paglia le loro abitazioni. Solo fra il ‘400 e il ‘500 abbiamo infatti le prime testimonianze di case in sasso che non fossero di nobili discendenti il più antico architrave datato della Parrocchia di San Benedetto: in cima alla scala interna della casa oggi abitata da Lidia d’Augusto e da Annibale s’apre una porta con sopra la data 1545. Altre posteriori si leggono ancora a Ca’ di Lucchini (1562), Ca’ dei Galli (1578, ma l’architrave è ora custodito nel campanile), San Martino (1583), La Valle (1631), vecchio campanile (1633). Date più antiche se ne hanno alla Maestà di Piano del Voglio (1493), Qualto (1508), Poggio Suizzano (1525), Castelluccio (1563, oggi sepolta fra le macerie).
Sempre a Musolesi, su due architravi di lato alla medesima scala si possono ancora ammirare una rosa scolpita al modo dei maestri Comacini – famosi capimastri medievali – e il monogramma IHS. La rosa è beneaugurante simbolo pagano di fecondità, e dunque di abbondanza e fortuna: non ne conosciamo altri di simili nel territorio di San Benedetto ed è pertanto preziosissimo documento per la nostra storia (ve n’era uno stilizzato al Castelluccio, ma per l’incuria degli uomini è andato perduto; un altro simile è leggibile sull’arco acuto di una casa di Valle, ma in comune di Mounzuno). Le tre maiuscole IHS rappresentano invece il noto (almeno alla mia generazione) simbolo cattolico I(esus) H(ominum) S(salvator), col quale s’invocava la protezione divina sulla casa e su chi l’abitava.

I Musolesi nel Catasto dei Boncompagni

Nella seconda metà del ‘700, sulla spinta del riformismo illuminista proprio del secolo, anche in Italia si pose mano alla stesura dei primi catasti dei terreni e dei fabbricati. I vari stati della penisola, nella volontà di razionalizzare l’amministrazione e nella necessità si reperire i denari necessari al fisco, tentarono di impiantare strumenti, il catasto appunto, che consentissero una più sicura individuazione delle proprietà tassabili e dei redditi conseguenti.
Bologna e il suo Appennino erano all’epoca soggetti allo Stato della Chiesa. Il legato pontificio di Bologna, cardinale Ignazio Boncompagni Ludovisi, avutone il mandato da papa Pio VI con chirografo del 25 ottobre 1780, dispose per l’inizio dei lavori. Decine di periti agrimensori occuparono le terre della diocesi bolognese e attesero per anni a misurare campi, macchie, edifici,strade, riportando il tutto su mappe che possono oggi apparire per alcune parti ingenue e imprecise, ma che sono una preziosissima fonte di notizie per gli storici. Accanto alle mappe furono redatti brogliardi illustrativi, vale a dire registri che elencano i proprietari dei numeri catastali, il tipo di cultura idonea ai terreni, il reddito presumibile di campi e fabbricati. Il lavoro del Bomcompagni non fu portato a termine per i troppi interessi che andava a toccare.
A noi, molto modestamente, è servito in passato per offrire ai lettori una sicura ricostruzione di come apparisse San Benedetto due secoli fa (vedi il libro dei cercanti del 1984, Appunti di storia montanara) e ora ci consente di scrivere di Musolesi con dati certi.
Borgo Musolese (così è nominato nel catasto Boncompagni) compare nella mappa del Comune di Qualto – se ne diranno i motivi più avanti – ma, per l’evidente rilevanza dei fabbricati, borgo di case attraversato dalla strada.
Intorno al 1780, dunque, le mappe e i brogliardi del Catasto Boncompagni attestano che a Musolesi vi erano 11 ‘case’ accorpate in due blocchi separati dalla via che andava (e va) a Sant’Andrea. Come oggi del resto, anche se le ‘case’ sono aumentate di numero e sono state costruite stalle e capanne – perchè di capanne allora ce n’era una soltanto, comune a tutti i possidenti del borgo, ed era quella di recente trasformata in villa dal figlio di Giulietta Lenzi. Comune era anche il cortile antistante la capanna.
Era modalità antica costruire con la zunta / l’aggiunta, cioè utilizzando per uno dei lati della nuova casa il muro esterno di un’altra. Si risparmiavano terreno, sassi, fatica: tant’è vero che in previsione della possibile aggiunta si lasciavano sporgere dal muro opportuni conci che servissero per legare meglio la casa nuova alla vecchia. Sono sorti così i caratteristici borghi montanari.
Tornando a Musolesi, i proprietari delle 11 case erano all’epoca:

Santi Sante del fu Giovanni
Santi Domenico del fu Giovanni
Musolesi Giacomo del fu Domenico
Musolesi Sabatino del fu Domenico
Sig. Don Musolesi Cornelio del fu Pietro, parroco di Cedrecchia
Sig. Don Musolesi Francesco del fu Giovanni
Sig. Don Musolesi Giovanni del fu Achille
Chini Giacomo del fu…
Lenzi Giovanni Battista del fu Matteo (proprietario di 2 case)
Eredi del fu Giovanni Antonio Lenzi.

Tutti costoro possedevano anche, attorno a Musolesi, pezze di terreno “atto a formento posto in pendio a solano, buono”. I proprietari delle case di Musolesi sono dunque 10, portatori però di soli 4 cognomi: Santi, Musolesi, Lenzi (i cui lontani eredi abitano tutto in loco) e Chini (o Chinni), cognome che non compare più da tempo fra i residenti nel borgo.
Sante e Domenico Santi sono fratelli (figli del fu Giovanni), e abitavano entrambi nel gruppo di case (allora più ridotto) a monte della via per Sant’Andrea, di fatto dove ancora sono proprietari i Santi di oggi. Il nominato Sante ci testimonia il modo della formazione del suo cognome. Il latino infatti – e i primi registri di battesimo erano redatti in latino – figlio di Sante si scriveva filius Sancti, donde nel tempo il conseguente cognome Santi che sostituì, come nella maggior parte dei casi, il patronimico ‘figlio di…’.
Fratelli sono anche Giacomo e Sabatino Musolesi (figli del fu Domenico), le cui case erano a monte della via: ancora negli anni ’50 vi abitavano i Musolesi ed Télli.
La casa dei Musolesi ed Vitòri fu costruita invece più tardi sul terreno antistante, e con essa il caratteristico voltone che unisce i due borghetti fino ad allora separati.
Una curiosità: nell’elenco dei proprietari compaiono ben tre preti, tutti cogniminati Musolesi, uno dei quali – Don Cornelio – parroco a Cedrecchia. Deduco che altri due Musolesi – Giovanni del fu Achille e Francesco del fu Giovanni – siano anch’essi preti per il fatto che il loro nome è preceduto dai titoli Sig. e Don come il parroco Cornelio, mentre i restanti proprietari non hanno titoli di sorta. Un tempo si diventava preti per almeno due buone ragioni che poco avevano a che fare con la vocazione (qualcuno comunque l’avrà sentitao, in seminario, gliel’avranno inculcata): non si voleva spartire fra troppi eredi la casa e la poca terra che consentiva la sopravvivenza della famiglia, per cui i figli cadetti non dovevano ammogliarsi; per contro reggere una parrocchia significava prestigio sociale e benessere in quanto la chiesa possedeva beni dei quali il parroco aveva l’usufrutto.
Continuando nell’esame del Catasto Boncompagni, notiamo che Lenzi Giovanni Battista del fu Matteo risulta proprietario di due case, entrambe a valle della via, una delle quali ancora oggi di proprietà dei Lenzi, come del resto l’altra spettante allora agli “eredi del fu Giovanni Antonio Lenzi”. Tale cognome è già presente in un estimo del 1517 del Comune di Qualto che attesta, fra le altre, una domo muraria et coperta a lastris ( vale a dire una casa in muratura dal tetto di lastre di arenaria) a Ca’ Musolese, di proprietà di tal Luca Lenzi del Beza.

Musolesi nel Comune di Qualto

Fino ai primi anni dell’800 Musolesi, pur appartenendo alla Parrocchia di San Benedetto Valle di Sambro, faceva parte del Comune di Qualto. San Benedetto infatti, contrariamente a quanto succedeva per quasi tutte le parrocchie del nostro Appennino, non era costituito in Comune: il suo territorio era suddiviso fra i comuni di Qualto e di Poggio de’ Rossi. Il confine era segnato quasi interamente dalla strada che da Musolesi saliva su fin alla Collina e a Cedrecchia. Addirittura il borgo di San Benedetto (molto modesto per il vero) era diviso a metà: la chiesa e le case a nord della strada appartenevano al Comune di Poggio de’ Rossi, le case a sud al Comune di Qualto. Amche le frazioni viciniori facevano comune. Così Sant’Andrea, Montefredente, Cedrecchia, Monteacuto e addirittura Campiano, il cui borgo con la stessa chiesa furono ingoiati nel 1772 da una spaventosa frana di cui si aveva memoria orale ancora dopo l’ultima guerra.
Va comunque detto che non si trattava di unità amministrative complesse quali quelle di oggi. Avevano compiti molto più modesti. L’anagrafe e lo stato civile erano di fatto affidati al parroco che registrava nascite, morti e celebrava matrimoni validi a tutti gli effetti. Non v’era leva militare obbligatoria, né assistenza sanitaria pubblica, scuola dell’obbligo o raccolta dei rifiuti…. Un consiglio dei capi di famiglia discuteva le questioni più importanti e ne raccomandava la soluzione al vicario della circoscrizione in cui il territorio comunale era compreso. Il quale vicario era un funzionario del Comune di Bologna e poi dello Stato Pontificio. A capo del consiglio e del Comune stava il massaro, che tra l’altro rispondeva in proprio a Bologna dell’ammontare delle tasse segnate negli estimi. Uno scrivano assisteva il massaro – quasi sempre analfabeta come la maggioranza della popolazione, fossero proprietari o contadini.
Prima che venissero impiantati i catasti, strumenti precisi per individuare fabbricati e terreni e loro proprietari, i governi ricorrevano a sistemi più rozzi che consentivano comunque di venire in possesso di elementi utili a tassare la piccola e media proprietà. E si avevano gli estimi, registri comprendenti l’elencazione di tutti i possidenti del comune soggetti a tasse (detti fumanti) o esenti per qualsivoglia motivo (in genere nobili e clero).
Più particolarmente l’estimo consisteva in una sommaria descrizione delle abitazioni e degli annessi (corte, aia, capanna, forno…), dei campi con gli alberi d’alto fusto e la specie, dei confini con le altre proprietà e, ben chiaro, l’asse patrimoniale e la denominazione del fabbricato e del terreno inquisito, perchè ciascuno, pur modesto per estensione o valore, doveva riconoscersi dai rimanenti vicini non essendovi altra maniera per distinguerlo – mancavano le mappe catastali con la loro precisa suddivisione in particelle numerate corrispondenti a ciascuna unità da individuare. E dunque si avevano i nomi tramandati per generazioni di ciascun campo, pascolo, macchia o bosco, che ancora fanno trepidare coloro che amano la propria terra. Per Musolesi trascrivo i seguenti – me li disse, non ricordo in quale occasione, l’amico Sergio Lenzi in dialetto, che era il modo autentico per identificarli (il catasto li tradusse poi in lingua italiana, spesso storpiando lessico e significato): al Tòl, méz Valige, La Sponga...Francesco Musolesi li sapeva tutti. ma non è più fra noi per ripeterceli. Volendolo, tuttavia, sono recuperabili al Catasto.
Gli Estimi del Comune di Bologna dei secoli XIII e XIV, conservati all’Archivio di Stato, potrebbero forse dirci qualcosa di più preciso sull’arrivo del Mugellesi nella valle del Sambro – e ci auguriamo che qualche volenteroso studente li interroghi per noi. La valle era certo poco abitata se un così cospicuo numero di persone potè insediarvisi e lavorare la terra. Il territorio era forse allora dominio dei Conti di Panico, feudatari della media valle del Reno, ma che avevano la proprietà addirittura a Castel dell’Alpi. Il Castelluccio – il nome lo indica come luogo fortificato a controllare la confluenza del Rio Maggio col  Sambro, le cui rive in secco erano utilizzate da montanari per scendere al piano – il Castelluccio era stato certo un loro possesso. Lo confermerebbe un toponimo noto ormai a pochi: la fontana di fronte al Castelluccio detta della Barleda (ora catturata e immessa nell’acquedotto provinciale) era conosciuta come la funténa di Cont / la fontana dei Conti, al plurale: per antonomasia i Conti di Panico appunto, famigerati per il loro numero e la loro prepotenza in tutta la montagna. A quella fontana le donne di Musolesi andavano a lavare i panni anche d’inverno: la sua acqua, sgorgando da una falda profonda, addirittura fumava perchè tiepida rispetto all’ambiente di neve e gelo.