I Personaggi

Domenico Simoncini

“QUANDO NON DORMO, CONTO LE PERSONE…

“Quando non dormo, non conto le pecore, conto le persone”. Chi conosce Domenico Simoncini – detto “Simet” – non si stupisce della battuta, conoscendo il suo fare burbero, ma anche il suo grande attaccamento per il borgo in cui e’ nato e dove ha vissuto, come tanti altri, la giovinezza, e dove non riesce a non ritornare, anche solo per quattro passi.  
Chi non lo conosce, deve sapere che “Domenico” e’ l’unico in grado, forse, oggi,  di ricordare – persona per persona –  la gente che abitava a Musolese (il nome del borgo e’ controverso)  tra il 1935 e il 1950: in totale, 141 persone, fidandosi della sua memoria, dove oggi si contano 16 residenti e una trentina di persone in totale, villeggianti compresi.  

Di tutta questa gente che non c’e’ piu’ tiene una sorta di quaderno personale, dove ha annotato in bella calligrafia nome, data di nascita, data di morte: come se li avesse seguiti in un lungo percorso senza averli mai dimenticati…  Una sorta di diario della memoria:  dal suo racconto sembra di vederle, quelle persone, descritte fin nei minimi particolari, affollare le vecchie case, ora quasi tutte restaurate: dodici persone in due camere da letto, senza bagno, adesso la casa e’ vuota….    
Tempi che cambiano, cosi’ come e’ cambiato il borgo: oggi, a ricordare, interviene una sorta di pudore perche’ molte cose vissute forse – col benessere – si fa fatica a capirle, e quasi quasi ci si vergogna un po’.  “Sia chiaro – interviene Domenico con fare energico –  io non rimpiango proprio niente, si sta molto meglio adesso …Sai cos’e’, allora eri giovane, i pensieri non e’ che ti davano fastidio…. “   
Nativo di San Benedetto (La Serra), Domenico Simoncini  arrivo’ a Musolesi nel 1929, all’eta’ di tre anni: vi ha abitato fino al  1950: ha lasciato il borgo per  Bologna, dove si trasferi’ per lavoro,  all’ eta’ di 24 anni, dopo aver vissuto la guerra.  Lo zio Giovanni, che visse sempre in seminario fino alla pensione, nel 1952 vinse alla Sisal 2 milioni 900 mila lire,  con un 12 al totocalcio. Compro’ subito una casa in citta’,  dove ando’ a vivere il nipote con la famiglia.  Riusci’ anche a comprare una piccola casa a Musolesi –  “quella che era stata la casa del fabbro”, ricorda Simet –  pagandola 350 mila lire: li’ passo’ con la cognata la vecchiaia. In banca non si fece piu’ nemmeno vedere:  le restanti 700 mila lire  della vincita,  in 24 anni di deposito –  fino alla morte avvenuta nel 1976 –  fruttarono 52 mila lire(!!!)  che non bastarono nemmeno a pagare le tasse di successione per l’eredita’.  
”Io avevo tre anni quando sono venuto a Musolesi…. – racconta Domenico Simoncini – Ricordo che mio padre fece  il trasloco con il “biroccio” (un carro trainato dai buoi, ndr) , e io caddi vicino al campanile….

Come e’ cambiata la vita a Musolesi?

La differenza e’ enorme… Una volta c’era della miseria, la gente andava a letto anche senza cena.   Episodi ce ne sono tanti, non li puoi nemmeno raccontare , quasi  quasi oggi sembrano  offese….  
Ad esempio c’era un uomo,  che aveva forse 7 figli, e  non c’era  niente da mangiare…Alla sera diceva:  a chi va a letto senza cena gli do’ una lira. La mattina,  quando i bambini si alzavano, avevano fame. Allora luii diceva: chi vuole mangiare, mi deve dare una lira…  Cosi’… risparmiava una mangiata!!!

C’era differenza tra contadini e “padroni” …
I contadini avevano una miseria spaventosa: avevano da mangiare e basta. Le scarpe…. andavano alla fiera di Monghidoro  e compravano tre paia di scarpe per tutta la famiglia… Poi andavano a messa, parte alle 8 e parte alle 11, cosi’ si scambiavano le scarpe…

Una giornata tipo…

Quando venivi a casa da scuola andavi ad esempio a casa dei Moruzzi: ci trovavi una trentina di persone, solo loro erano 14 o 15 ….
Ci andavano tutti i bambini di  Musolesi ad ascoltare le favole, che raccontava “Tilliòn”: tutti noi davanti al fuoco ad ascoltare. Il racconto durava anche 4-5 ore: erano favole belle, che venivano raccontate anche dentro al seccatoio, dove venivano messe ad asciugare le castagne per l’inverno.

A Borgo Musolesi in quegli anni vivevano, secondo quello che ci ha raccontato e che si ricorda, ben 141 persone…  Cosa faceva la gente ?
Lavorava cinque o sei giorni al mese: aiutavano tizio, caio, non c’erano spese,  ad esempio per la casa… chi stava in affitto pagava quando aveva i soldi.  Pagavano ad esempio l’affitto, Celso Venturi,  mio padre, e Carlo Mei:  gli altri erano contadini, non pagavano niente… La gente emigrava, andava in Germania. Stravano via sei mesi, un anno…. Poi tornavano, e pagavano i debiti di due tre anni prima. Mio padre e’ andato via quattro-cinque volte. L’ultima volta ando’ ad Amburgo, a lavorare in una polveriera: c’era gia’ la guerra… Quando tornavano, quei soldi bastavano per tirare avanti un paio d’ anni…

Al borgo restavano i contadini….

Si, qui lavoravano i contadini: gli  operai lavoravano otto giorni al mese,  perche’ c’era il sindacato che gli dava qualcosa da fare. La gente si arrangiava: c’era chi andava ai aiutare i contadini, che gli davano in cambio il latte e il formaggio.  
Al borgo, la  maggioranza erano contadini:  i Rinaldi, Giuseppe  Musolesi, contadino di Primitivo, , Fulvio, contadino di Dino Vaccari,  Raffaele  Rinaldi …. E poi Lumini, il contadino di Lenzi  ….
Gli operi lavoravano, ma a turno: Celso Venturi, mio padre…  E poi c’era il  fabbro, un artigiano: lui lavorava sempre, perche’ i contadini avevano sempre le bestie da ferrare…
Poi c’erano quei sette o otto che avevano il lavoro fisso…. A Musolesi il lavoro fisso ce l’aveva Claudio Musolesi, mio nonno, lavorava in comune: portava in giro le cartelle esattoriali, era il messo comunale.  Adelmo Lenzi,  lavorava anche lui in Comune: era forse  capo cantoniere. Ad esempio ricordo che pagava le persone quando andavano ad aprire le strade che aveva nevicato, quando veniva fatta la “spalata”. Si prendevano dieci lire, forse erano gia’ troppe ….

Quanti animali c’erano?
Una decina di buoi e vacche da Lumini, sette da Primitivo, quattro da Fulvio Marchioni. E poi c’era Vittorio Musolesi, che aveva una mucca, che dava il latte e formaggio alla famiglia…

Si dice che una volta la gente era piu’ contenta che  adesso….
La gente era piu’ contenta che  adesso, perche’ non c’erano esigenze… Tutti i giovedi’ da San Benedetto si andava a Monghidoro perche’ c’era il mercato… Se li voltavi in giu’, non avevano un centesimo da spendere, ma non se ne poteva fare a meno… Le osterie erano piene, ma nessuno aveva soldi: pero’ la gente era contenta, penso perche’ erano tutti uguali… tutti in bolletta!!!!

Le strade non c’erano nemmeno
C’era delle viuzze, di sassi, non c’era l’asfalto….certamente non c’erano ringhiere nei muri di Musolesi.  Pero’, con 60-70 bambini, non e’ mai caduto nessuno… Ai  tempi della guerra nei Grilli c’era un rifugio: siamo stati li’ durante i bombardamenti una ventina di giorni. C’era tutta Musolesi, una sessantina di persone. Di mangiare non se ne parlava nemmeno. Ricordo che una volta arrivo’ mia mamma,  con quei paioli di rame grandi:  dentro c’erano patate lesse,  sopra almeno un dito di  sporcizia…  Le patate si erano cotte bollendo con la terra: tutti comunque cominciarono a pelarle e a mangiarle, non guardavano certo alla sporcizia…. La fame e’ fame.  

Poi arrivarono gli americani…
Nel ‘44: il 3 ottobre sono arrivati gli americani. Ricordo che il  26 – 27 settembre cadevano le granate fisse… Il 22 settembre San Benedetto fu bombardato dagli americani e la gente comincio’ ad andare nei rifugi, perche’ cadevano anche le cannonate. I rifugi in paese erano due, uno era quello di Musolesi. Lo avevamo costruito noi: avevamo scavato una galleria nei Grilli con i picconi, poi l’avevano armata con dei legni che ci dava il Comune (tagliavano gli abeti a Pian di Balestra). Ricordo che il rifugio era lungo una ventina di metri, fatto a ferro di cavallo…. Sopra c’erano sette otto metri di terra, insomma era abbastanza sicuro. Lo avevano costruito io, Pietro Venturi, Beppe, Gustavo, tutti i ragazzi di Musolesi….   Uno aveva 18 anni, Pietro 19, Gustavo 20…
E tutti stavano li’ ad aspettare che arrivavano gli americani….   Ogni tanto venivamo a casa a prendere da mangiare ….

Un ricordo particolare?

Avevamo un maialino… Una mattina esco dal rifugio, e vedo il maialinio che girava su per il campo…  Era caduta una cannonata, ed era uscito dal porcile… Riuscii’ con fatica a portarlo in una cantina della casa dei Musolesi ….

Lavoravate per gli americani?
Andavamo nella cucina degli americani a fare gli “sguatteri”: lavavamo le loro marmitte, andavamo a prendere le sigarette… E loro ci davano quello gli restava da mangiare, gli avanzi delle uova fritte del mattino, con la melassa…  Non ci pagavano mai, ci davano sempre della roba da mangiare.   Nella zona di San Benedetto c’ era una divisione di carristi, forse 5 mila persone: il fronte era a Monte Sole … Gli americani sono arrivati nel pomeriggio del 3 ottobre, e sono rimasti fino al 6 – 7   gennaio… Hanno lasciato passare l’inverno …. Erano nelle tende qui intorno, ospiti nelle case …. Ballavano tutte le sere in casa di Attilio, “Tilliòn”….
Qualcuno di noi suonava:  uno di Castel Dell’Alpi la fisarmonica, Vittorio Grandi il sax , Livio Stefanini la batteria …. Si ballava il valzer, c’erano tutte le donne di Musolesi,  poi ci andavano noi…. Gli inglesi invece ballavano in casa di Primitivo,  dove c’e’ oggi a famiglia di Norberto. Anche nella sala di Vittorio Musolesi si ballava.   
Quanti erano? Forse un centinaio di persone ogni sera. E poi cambiavano: la gente andava a letto, ne veniva dell’altra…  

Come ci si divertiva, come si passava il tempo?

Noi ci divertivamo poco, forse loro…Le donne erano sempre quelle, noi eravamo dei ragazzetti… poi venivano giu’ quelli di San Benedetto ….

Cosa si mangiava?
Se non c’erano gli americani, si moriva di fame. Io portavo giu’ gli avanzi dalla cucina: facevano delle frittelle dolci, e quando smettevano di friggere restavano dentro ai bidoni 20 –30 chili di pasta… Io, con  Mario Parazza e Marino Pasqui,  andavamo a  prendere la pasta rimasta e quelli di San Benedetto facevano delle ciambelle. Zia Laura, zia Pina, campavano cosi’… Poi ogni tanto gli americani davano pasta, zucchero, caffe’, the’…. Mario Parazza –  che lavorava anche lui in cucina –  era vicino casa…. Ricordo che aveva fatto un mucchio di the’, tanto che lo dava da mangiare alla mucca.. Gli americani il the’ non lo facevano mai,  e avevano sacchi da dieci chili. Io invece portavo a casa del caffe’ .  

Che tipo di rapporto avevate con i soldati ?

Andavamo d’accordo. Erano poi quasi tutti italiani, anche se nati in America, parlavano bene l’Italiano… Ricordo un certo Mario, il capo della cucina: era figlio di napoletani, nato in America, era un buon uomo… la sera faceva dei mucchietti di cibo dentro le scatole…  

E quando fini’ la guerra?
Quando la guerra e’ finita, si comincio’ a fare qualcosa in giro,  sempre con gli americani.  Andavamo in giro soprattutto a mettere a posto le strade, perche’ le avevano rovinate tutte: passavano carri armati,  le strade si erano allargate, e poi non c’era non c’era fondo stradale….

Qualche ricordo particolare di quel periodo?
Ricordo un sudafricano, Frank: era il giorno di Natale e ando’ a fare il bagno in Sambro: se non lo andavano a prendere, moriva la’, dal freddo. Penso che quando qui da noi e’ inverno la, in Sudafrica,  e’ estate : lui ci raccontava che il giorno di Natale a casa sua andava fare il bagno nel fiume. Penso che  volesse sentirsi a casa….. Andarono a prenderlo al fiume i suoi colleghi, con la jeep e delle coperte, senno’ moriva…


Lei stava bene o male ?

Io sono stato bene: quel periodo li’ ho mangiato parecchio, bevuto e ho imparato anche a fumare…. Oggi ricordo che era  tutto distrutto, ma almeno lavoravi:  prima non facevi niente….

Qualcuno aveva la macchina, dopo la guerra?
La macchina ce l’avevano il dottor Mario Borri, il veterinario Gaetano Piazza e Raffaele Girotti , che aveva il servizio pubblico: portava via un persona ogni due o tre mesi….  Poi c’erano ad esempio i fratelli Stefanini che avevano i camion: si occupavano di trasporti, portavano via la legna… Erano gia’ i signori di San Benedetto.  Io sentivo i vecchio che dicevano.. “Ma non se durera’ (“Me an so brisa s’la puo’ durer… “): si riferivano ad esempio ad uno che andava in giro tutti i giorni … Invece e’ sempre durata. Cambia tutto, ma si va avanti lo stesso: e io non ho mai visto nessuno “durare nella fame”, anche se nel bidone del rusco pane non ne ho mai visto. Una volta gli si dava un morso, e la mano era sotto, per raccogliere le briciole…  

Che ricordo ha dei suoi vent’anni?

A vent’anni, dopo la guerra, non pensavi a niente. Pensavi solo alle donne, a un lavoro sicuro… Non c’era piu’ la preoccupazione, non pensavi cosa faro’ domani….

E poi c’era la storia dei proiettili…
Noi eravamo nel rifugio: ricordo che quando venivi in qua, verso le case, c’erano i tedeschi che ti aspettavano per darti delle borse con dei proiettili. Te li caricavano sulle spalle: dentro tre proiettili di artiglieria, sette chili ciascuno.  Ti davano due borse, 44 chili,…. Le scaricavano vicino al pozzo (la fontana all’inizio del borgo, ndr)  e te li facevano portare giu’ vicino alla sorgente della Sponga…(la sorgente in fondo al paese, ndr). Quel  lavoro in genere toccava al fabbro, che aveva gia’ piu’ di 50 anni… Aveva i figli ammalati da portare a letto, e lui doveva prendere l’acqua  alla fontana , che non era mica in casa.  Intanto le cannonate cadevano, si rischiava anche la vita… Noi andavamo nel rifugio, lui – il fabbro, Roberto Musolesi – era costretto a restare in casa …

Capito’ anche lei di fare il trasporto delle munizioni?
Un volta capito’ anche a me, e io feci finta di avere un “bisogno corporale” per svignarmela… Il tedesco non capiva o faceva finta di non capire , io mi tirai giu’ i pantaloni, poi me la diedi a gambe… Il giorno dopo mi cercavano fuori dal rifugio… Fu Guastavo Musolesi a dirmelo: lui lo avevano gia’ preso, ed era venuto dentro…. Restai dentro cinque, sei giorni…. Intanto qualcuno mori’ per lo scoppio di mine, qualcuno mori’ sotto le cannonate….  

Come si comportavano i soldati con le donne?

Con le donne erano gentili, non e’ mai successo niente…

Come ci si innamorava una volta?
  
Come ci  si innamora adesso… Ci si incontrava nelle feste,  nelle sagre:  festa di maggio di Sant’Andrea, oppure andavi a fare due o tre giorni di lavoro, o te la trovava qualche amico… Di donne ce n’erano parecchie. Difficilmente da qui pero’ si andava prendere moglie a Monghidoro…….  Si sposavano tutti qui…. Massimo arrivavi a Sant’Andrea, a Qualto no… Madonna dei Fornelli non se parla… Allora c’era un campanilismo enorme….

Ad esempio?  
Ad esempio, Romano Santi portava sempre il somaro in Rio Maggio: un giorno si era slegato. Romano venne a casa e lo disse a uno dei  figli., Primitivo. Lui ando‘ a cercarlo, ma il padre  lo mise sull’attenti: al massimo, gli disse,  arriva nel Burango… se l’hai trovato bene, se no vuol dire che e’ perso.” Se ha varcato il fosso – ripete’ –  il somaro e’ perso”.  

Come ricorda quelle persone?
Era gente che “si” prendeva, che “ti” prendeva anche in giro… in casa mia c’erano “Romanazz, Vittori..” a fare chiacchiere, d‘inverno…Quando aveva bevuto Vittori era la fine del mondo…  
Ma c’era anche una grande solidarieta’: ricordo ad esempio i   Moruzzi,  i Rinaldi.
Quando ad esempio in una famiglia moriva un fratello giovane, l’altra si addossava il mantenimento di sua moglie e dei suoi figli. E’ successo anche nella famiglia di mio padre:  quando mori’ mio nonno,  lui aveva 11 anni,   l’altro fratello, Giovanni, ne aveva 3. Francesco, il fratello di mio nonno, mantenne  la famiglia di mio padre: dal 1902 al 1929 la famiglia e’ rimasta unita. Abitavano alla serra, eravamo contadini dei Musolesi , detti Pedrazzi.

La solidarieta’ non era estranea a quella gente…    
Ricordo che c’era Ermanna (Ermanna Santi, ndr) che faceva il pane, e dava due pagnotte ai contadini  … e c’erano i poveri che passavano alle elemosine, e tutti gli davano qualcosa … Un giorno passo’ “Boba” , che non era proprio normale. Aveva appoggiato il suo sacco su un muretto del borgo, ma la proprietaria del posto – vedendolo strano –  gli disse: “ Via, via, questa e’ proprieta’ privata”. Lui prese il sacco, se lo mise in spalla e rispose: “Sono a posto anch’io, dovro’ tenere sempre il sacco in spalla, io, che non sono proprietario di niente!”.  (in dialetto).

ll BORGO E LA  NOSTALGIA PER LA GRANDE CITTA’, FIRENZE


Non tutti vivevano “felici” al borgo, inteso in quanto tale: il borgo con i suoi spazi limitati, la gente semplice, i passatempi divertenti ed ingenui, la poverta’…. C’era chi sentiva – succede anche oggi, ed e’ considerato piu’ che normale! –  la nostalgia della grande citta’: Firenze, nel caso in questione, citta’ da cui proveniva la signora Dora, moglie di Duilio Santi. Era stata dirigente dell’ufficio di stenografia delle Ferrovie dello Stato del capoluogo toscano e,  in pensione,  aveva optato per la nuova vita. La coppia – con il figlio Norberto – viveva nell’aia di sopra, in quella che era considerata la piu’ bella casa di Musolesi. Tuttavia la nostalgia che provava una donna evoluta per quei tempi – da qui l’appellativo riconosciuto da tutti di Signora –  era per la vita agiata di citta’.
Frequenti erano le discussioni tra i coniugi sull’argomento. Un giorno la discussione arrivo’ al culmine. La signora Dora era in casa, il marito nel campo sotto l’abitazione, che confina con le proprieta’ dei parenti.  
“Duilio, Duilio, sto male!!!”, si lamento’ ad alta voce affacciandosi alla finestra, ma l’uomo fece finta di non sentire.
Rincaro’ dunque la dose.  
“Duilio, Duilio, portami via, io qui muoio!”.  
Dal campo si alzo’ allora la voce di Duilio,  che replicava :
“Eh, gli e’ morto anche Marconi…. “      


(dal ricordo del nipote Romano Santi, che – bambino –  senti’ la conversazione negli anni ’30.  Guglielmo Marconi era morto da poco: lo scienziato mori’ a Roma il 20 luglio 1937 )

Dora, moglie di Duilio Santi

Ermanna Santi

Ermanna Reginetta della Festa fu eletta per “scommessa”.

Forse non tutti sanno che il “televoto” non è poi un’idea così originale, e che una volta le “reginette” venivano votate alle feste di Paese anche tramite l’acquisto di biglietti, in una sorta di gara ad eleggere colei che – per un qualche motivo – era la prescelta: una sorta di voto, dunque, non necessariamente della più bella. E’ successo ad esempio ad Ermanna Santi, oggi ultranovantenne e una delle figure piu’ significative di Borgo Musolesi, dove ha abitato più di 50 anni, lasciando un’impronta indelebile al tempo della guerra soprattutto per la generosità verso i più poveri e i contadini ai quali non lesinava mai una pagnotta di pane, la prima – ricordano oggi al borgo – “che toglieva dal forno”. Successe nella sala del cinema di San Benedetto Val di Sambro – l’attuale caserma dei carabinieri – dove si usava fare grandi feste da ballo, in particolare per carnevale. Ermanna aveva 17 anni: ricorda che aveva un vestito normale, corto sotto il ginocchio (e’era anche chi andava in abito lungo!), di colore giallo. Era in gara per diventare reginetta con altre ragazze di allora, tra cui la “bellissima” Venusta Vaccari, corteggiata da molti: tra questi il maestro Giuseppe Zaccheroni, che poi diventò suo marito. Quando l’elezione di Venusta sembrava ormai certa, si scoprì che in sala c’era anche Adelmo Lenzi, assieme all’amico Mario Stefanini, che con Zaccheroni – ricorda Ermanna – avevano una certa antipatia. Adelmo e Mario comprarono tutti i biglietti e votarono Ermanna “per scommessa”, ricorda sempre lei, per far perdere il rivale e la sua bella. Fatto sta che al momento dell’elezione, tra la sorpresa generale, e il disappunto di Zaccheroni, fu lei, Ermanna, la reginetta. “Io rimasi davvero stupita, non conoscevo neanche Adelmo – racconta Ermanna divertita – casomai solo di nome. Ricordo che il ballo d’onore, dopo l’elezione, non lo feci con lui, perchè non ballava, ma con un bel ragazzo di allora, Norberto Santi, che – laureando – aveva il capello da studente”.
Tuttavia, l’elezione lascio’ il segno: Ermanna, per la cronaca, divenne in seguito la moglie di Adelmo Lenzi.
(dal ricordo di Ermanna Santi, la “reginetta”)

L’onesta di una volta e il “furto” di Ermanna bambina.


Con i tempi, cambia anche il concetto di onestà. Ermanna era bambina, aveva 7 o 8 anni. Dove ora c’è la casa di Mauro Grandi, appena sopra Musolesi lungo la strada per andare in paese, c’era una vigna. La bimba passò, non resistette alla tentazione di prendere un bel grappolo d’uva e lo porto a casa. Lì c’era la nonna, Gelsomina Mongardi. Chiese: “Duv a l’ét Tòlta?” (Dove l’hai presa?) “Lasò in t’la végna” (lassù, nella vigna) rispose la bimba. “Sintìla…” (Sentitela…) e gliela porse.
La nonna non le risparmiò una sgridata: lo fece però, ricorda Ermanna, con un tono triste.
“A n’in vòi gnénc ‘na grèna – disse – perchè tl’é rubà” (non ne voglio neanche una grana, disse, perchè l’hai rubata).
(Ermanna Santi la ricorda ancora quella sgridata).

La Par condicio nell’emigrare: la invento Vittorio Musolesi.

Per sostener la famiglia – aveva moglie e dieci figli – Vittorio Musolesi, ricordato come uno dei personaggi più simpatici della storia del borgo per le sue battute taglienti, decise come altri di emigrare in Germania, dove andò a lavorare in una fonderia. Erano i tempi della guerra: Vittorio, da quell’esperienza che durò almeno un paio d’anni, uscì dimagrito di venti chili. A casa ne parlava sempre: diceva che era un lavoro molto duro, che gli era mancata la famiglia, e che direttamente non aveva mai visto un soldo, perchè arrivava tutto a casa: là c’era solo da mangiare – pane nero e patate – da dormire e da lavorare.
Tornato a casa, aveva messo a posto tutti i suoi interessi più urgenti ma i soldi erano sempre pochi. Un bel giorno, la moglie Mariuccia gli disse: “Torni ben un po’ là, emènc quic més…(Tornaci un po’ là, almeno qualche mese…)”. Vittorio, che non ne voleva proprio sapere – o meglio ne aveva avuto abbastanza di quell’esperienza – rispose: “Ades i tolen ench al dòn, vai un pò té...(Adesso prendono anche le donne, vacci un po’ te…)”. In Germania Vittorio non ci tornò più. (la nuora Silvia Borelli che lo ricorda con affetto).

Vittorio… a ruota libera


Vittorio era con la trebbiatrice a “battere” il grano nell’aia, chissà in quale borgata. Il lavoro si concludeva sempre con una bella mangiata tutti assieme, servita dalle donne del posto, ma spesso – per cause maggiori – il mangiare era scarso. Successe così che venne servita una bella polenta, con coniglio in umido: ma era più il sugo della carne. Una delle donne riempiva a Vittorio il piatto di polenta ma soprattutto di sugo,  quello che lui chiamava “bagnolino”. A un certo punto non ne poté più di mangiare:  tirò fuori di nascosto il cappello per asciugare il piatto, poi se lo rimise in testa, perché non voleva essere scortese. Ma la donna chiese di nuovo: “Vittorio, ne volete ancora?” “Eh no – rispose deciso- an son méia un nandrìn” (Non sono mica un anatroccolo!!!)…  Vittorio non stava molto bene. Un amico gli disse“Av trov un po’ zo’, Vittori…. “ Rispose: “L’e’ piu’ zo’ Rvezz …. “ (E’ piu’ giu’ Rioveggio…. ) Vittorio aveva un fico dietro la capanna: a Musolesi c’era una donna meridionale a cui piacevano molto i fichi. Lui gliene porto’ un panierino nell’aia.  “Mangiate che ce ne sono tanti,  se no’ vanno a male” disse Vittorio, gia’ anziano. “Com’e’ Vittorio, a voi non vi piace la fica? “ chiese la donna, con il suo accento d’in giu’.  Vittorio replico’.  “ ‘Na volta”. C’era al borgo Maria Musolesi, una donna molto simpatica e molto magra, sempre vestita col grembiulino e il fazzoletto in testa. Si vedeva che era veramente piatta, senza seno. Vittorio, che non lesinava mai la battuta,  un giorno le disse: “Te, Maria, t’e’du tett che al peren du bullett d’un usc ‘un cimiteri… “ (Tu Maria hai due tette che sembrano due bollette della porta di un cimitero…. Da notare che una volta le porte dei cimiteri avevano i chiodi piantati nel legno: il legno si seccava e le “bollette” andavano indentro)  

Vittorio Musolesi

Agostino Musolesi

Anche la politica era qualcosa di singolare nelle chiacchere del borgo: sicuramente più vicina alla gente, direbbero oggi i nostri parlamentari, alle prese con una crisi di identità e valori. Fatto sta che un comizio di Nilde Iotti, la compagna di Palmiro Togliatti, nella vicina Monghidoro era un evento da seguire con curiosità e attenzione anche dagli abitanti di Borgo Musolesi, tanto più in quanto il personaggio in questione era una donna. Fu Agostino Musolesi, il figlio del messo comunale, a partecipare in prima persona all’evento, prendendo posto proprio sotto il palco. Tornato a casa, gli altri, curiosi, chiesero cosa avesse detto la Iotti. “Eh – rispose Gustìn, rimasto famoso per la sua passione per le belle donne – l’aveva un cul e dò tétt…!!!

(lo ricordano le figlie di Agostino, Renata e Mina, e Domenico Simoncini)

Maddanlina

MADDANLINA  E LA CONVERSIONE DEL DOTTORE


C’era una vecchietta – si chiamava Maddanlina – che pregava sempre al pilastrino con l’immagine della Madonna che si trovava alla Docciola, sul Sambro sotto Borgo Musolesi, vicino alla passerella  per andare a Sant’Andrea. Era la mulattiera che tutti attraversavano, anche il dottore, quest’ultimo a cavallo, come si addiceva a una personalità per quei tempi. Passando, aveva visto più volte quella donna, piccola e anziana,  pregare in ginocchio, col rosario in mano,  rivolta verso l’immagine, e ne era rimasto colpito.  
Un bel giorno il dottore, Fausto Menzione, scese da cavallo e si avvicinò a Maddanlina dicendole: “Maddanlina, Maddanlina, state sempre qui a pregare. Ma se non c’è niente nell’aldilà, prendete una bella fregata…”
La vecchietta, così modesta, non ci pensò due volte e si girò verso il medico. Lo  guardò negli occhi  e gli disse : “Sgnór dutórse pò aiè quèl la freghèda a la ciapé pió granda vó… (Signor dottore, se poi c’è qualcosa la fregata la prendete più grande Voi…)”
Fatto sta che il dottore rimase molto turbato da quell’anziana e dal tono di quella riposta: da quel giorno cominciò ad andare in chiesa, e si disse che si converti’.

(da un ricordo di Ermanna Santi, forse di cent’anni fa. La storia gliela raccontava la zia Marìina, una donna molto pia)

Ulderico Lenzi

IL PARADOSSO DELLA PADELLA


Si ricorda che uno zio dei Lenzi, Ulderico, detto Derìc, fosse una bravissima persona ma un tipo un po’ originale. Un bel giorno era in cucina e non trovava la padella per friggere. Chiamò la moglie per chiedergliela: i due si davano del Voi, e si dice che non ci fosse una gran confidenza. “Purtém la padèla, purtém la padèla!!! (Portatemi la padella, portatemi la padella!!!)” gridò. La donna ci sentiva poco e fraintese: piena di felicità, corse fuori sotto il portichetto e disse: “Oh Dio, mi ha detto che sono bella! Non me l’aveva mai detto!”
Ma intanto la gente, nell’aia intorno, sentiva che l’uomo continuava impietoso a gridare.
“An ò brisa dét c’a si bèla, aiò dét c’a vói la padèla! (Non ho detto che siete bella, ho detto che voglio la padella!)”

(da un ricordo della zia Margherita, ricordo di Ermanna Sarti).

Il cibo dei montanari

Sempre intorno al 1780 un appassionato studioso del nostro Appennino, l’abate Serafino Calindri, visitò la parrocchia di San Benedetto Valle di Sambro e nel suo monumentale Dizionario corografico ecc. d’Italia scrisse fra l’altro: In 51 famiglie sono divise le 311 anime che la compongono (Musolesi 10 famiglie, la Piazza 4, La Serra 5, Poggio 3). Musolesi dunque, con 10 famiglie – che corrispondono ai proprietari di case del Catasto Boncompagni – era il borgo più popoloso della Parrocchia. Accoglieva infatti circa 1/5 della sua popolazione, calcolata in 311 anime (gli adulti: il numero dei bambini era difficoltoso da conteggiare stante l’alta mortalità infantile). Un quinto di 311 dà all’incirca 60, una sessantina erano dunque gli abitanti di Musolesi nella seconda metà del ‘700. Se si riflette che gran parte dell’anno vi risiedono ora soltanto poche persone (una trentina d’estate) appare con evidenza quanto sia cambiata in due secoli la situazione demografica, economica e sociale del borgo.
I Mugellesi dunque sopravvennero nel Sambro; qualcuno (la Chiesa? I Conti?) avrà loro concesso la terra in cambio di tributi in natura e di servizi (corvè – òver diremmo noi in dialetto, cioè opere). Disboscarono intorno al poggio fino al torrente e su verso Ca’ dei Merciai, dove ancora la gente di Musolesi possiede terreni. Innestarono i castagni selvatici sulla sponda sinistra del Rio Maggio, dove guarda a nord, e di là da Sambro, dove i Lenzi possedevano macchia (e Castlér, toponimo che rimanda ad antica proprietà feudale).
Seminavano grano, che rendeva poco: tre / quattro misure per una, a metà del ‘700. Le cause: il clima rigido, il concime insufficiente per la scarsità del bestiame, gli attrezzi da lavoro inadeguati ad aprire in profondità il terreno disboscato – runcà, dicevamo noi, da noi i toponimi Rungrìn, la Runchètta e i vari Rònc un po’ ovunque in montagna. A primavera si seminavano marzatelli, biade di minor pregio ma più idonee all’ambiente: segala, miglio, fava, veccia. Patate e mais (furmentòn, cioè grano grosso) solo al principio dell’800, nonostante fossero importati già nel ‘500 dall’America appena scoperta, per la diffidenza contadina verso le innovazioni. Ne ricavavano farine per un pane scuro e petroso, che però ‘riempiva’ a contrastare la fame, e per pappe e polente. Poi zuppe di verdure e di erbe, e minestre di fagioli e di castagne (e còt).
La castagna in particolare diventò alimento quotidiano nella cattiva stagione: lessata (i balòs) e poi essiccata e macinata: pappe (manfét), polenta dolce, frittelle, castagnacci, pane (mistòca). Col tempo qualche po’ d’uva per un vinello acerbo e frutta di diversa maturazione, non potendosi conservarla a lungo (al pé osi / le pere osse, ad esempio, per l’inverno). Si allevavano maiali, inizialmente anche bradi, che le ghiande della macchia nutrivano; qualche pecora per il latte e la lana (le donne filavano e lavoravano d’aghi per fare maglie, calzettoni e anche sottane e braghe di sotto); galline per le uova, piccioni che si arrangiavano a cercarsi da mangiare. Ma nella stalla sempre poco bestiame grosso, costoso da acquistare e da mantenere. Da lavoro e per il formaggio, insaporito con l’aggiunta di latte di pecora.
Per la carne ci si arrangiava con la caccia. Un tempo di frodo, soprattutto con lacci e trappole, perchè cacciare era privilegio esclusivo dei nobili. Poi, più vicino a noi, con la stiòpa / lo schioppo a bacchetta – e divenne un piacere: ancora negli anni ’50 Musolesi vantava cacciatori appassionati e di vaglia: i Santi e i Lenzi, e altri meno abili, dei quali si potrebbero raccontare imprese drammatiche o comiche.
Già nel ‘700 tutti trecciavano la paglia del grano – e ròss gentil dal lungo stelo – per farne cappelli, sport, stuoie da vendere alle fiere. E anche si allevava in casa il baco da seta. Le donne covavano in seno le uova fino a che ne uscivano i bachi. Li si nutrivano con foglie di gelso (e si diceva andèr a la fòia, compito di donne e ragazzi) e innanzi che sfarfallassero si rivendevano i bozzoli gialli e maturi al castello di Elle a Rioveggio, o a Bologna al mercato del Pavaglione, che appunto vuol dire farfalla (dal francese papillon). Qualcuno anche allevava api per il miele e la cera – lo zucchero era prodotto d’importazione e dunque oneroso: famoso a Musolesi Primitivo Santi, ultimo rimpianto mielaio del borgo.

La via dei Musolesi

La miriade di comunelle che costellavano il contado di Bologna scomparvero con la conquista d’Italia da parte di Napoleone. Ai primi dell’800 il territorio della montagna bolognese venne riorganizzato in strutture amministrative più vaste e funzionali. I minuscoli comuni rurali divennero frazioni di un più grande comune con sede municipale al capoluogo. Avvenne così che Piano, governato fino al 1797 da un particolare regime feudale con a capo i conti De Bianchi, divenne sede del comune appunto di Piano del Voglio, che corrispondeva all’incirca all’attuale territorio comunale di San Benedetto Val di Sambro. La caduta di Napoleone e la nuova sottomissione al governo pontificio non mutarono per questa parte le cose. Ma nel 1871, unita ormai l’Italia in Regno sotto i Savoia, la sede municipale fu trasferita da Piano a San Benedetto (con conseguenti drammatiche vicende che ho narrato altrove).
Le ragioni del trasferimento sono riassumibili nel fatto incontestabile che San Benedetto era più centrale e comodo rispetto a Piano per almeno otto delle dieci parrocchie del Comune. Lo stesso Ingegnere Capo della Provincia calcolò il tempo effettivo che un viandante (s’andava tutti a piedi) impiegava per raggiungere i due borghi partendo dal proprio: la media rispetto a Piano risultò di 112 minuti, mentre per San Benedetto era ridotta a 67. E del resto gli stessi ‘comunisti’ – come d’indicavano allora gli abitanti del Comune – s’erano più volte espressi a grande maggioranza nel Consiglio municipale per il trasferimento.
Da quel momento la véia ed Muslés cominciò a essere frequentata non soltanto dalla gente del borgo. La percorrevano, per raggiungere il Comune e i servizi collegati (posta, carabinieri, medico condotto, farmacia, banca…) i ‘comunisti’ di Sant’Andrea, Monteacuto, Ripoli e di tutti i borghetti e casali sparsi lungo la valle del Sambro e la sponda destra del Setta compresa nel territorio comunale: Osteria del Ruggieri, le Banzole, le Serrucce, La Tenzone,… citiamo nomi a caso, tatnto per contenere l’emozione che ancora ci prende nel ripensare a quei posti solinghi e alla gente che li abitava: montanari tenaci, cotti dal sole e dal vento, infaticabili nel lavoro e di poche misurate parole.
Quelli di Piano e Montefredente invece, una volta giunti al pilastrino della Pieve del Cucco, o scendevano a Musolesi, o prendevano la corta per la via dei Grilli (oggi svilita in via Erbosa). Tutte viottole e mulattiere conosciute per fatti straordinari che le rendevano paurosamente fascinose all’immaginazione dei viandanti.
Lungo la via di Musolesi, ad esempio, poco sotto e Camdìn, c’era un tronco con un santino a segnare l’inizio di un sentiero: lì ci si ‘sentiva’, e la sera dopo l’Ave Maria diventatava arduo per noi ragazzi passarvi accanto. Ancora più paurosa la via di Ca’ di Viglia. Già dai bòssel, la siepe di bosso alta e fitta, dopo il tramonto faceva trepidare. Ma giunti a l’ébi, l’abbeveratoio si Sant’Antonio Abate, e cominciato a scendere la viottola, si era in balia degli spiriti: che ti chiamavano a nome e sbeffeggiavano battendo le mani e ridendoti addosso, E dal cielo abbuiato pizzicavano tristissimi violini. Fra le ultime ad udirli, per quel che so, sono state mia madre Alide e Bruna, che ancora ragazzette tornavano una sera da Ca’ di Viglia dove erano state a prendere uova e latte per la casa.
Ma addirittura terrifica era la mulattiera che, oltre Mulino di Giovannino, proseguiva per Montefredente, Lì, se non toravi il sasso sulla maséra, correvi addirittura il rischio d’essere inseguito da e murtizìn, dal morticino, un disgraziato che chino sulla polla a bere, era stato ammazzato anni e anni addietro da uno che gli era andato alla via, come si diceva, per gelosia di donne. Ma anche la passerella sul Sambro per Sant’Andrea era diventata luogo pauroso da quando nella primavera del 1944, poco prima del passaggio del fronte, vi avevano ucciso a fucilate due carabinieri. Tutti in paese, inorriditi, li avevano visti trasportare nell’allora Casa del Fascio allungati su due scale a pioli, coperti alla meglio con delle frasche. Da quel giorno la passerella divenne passaggio angoscioso e noi si preferiva guadare scalzi l’acqua del torrente guardando intanto l’infido buio di sotto, da cui era sbucato l’assassino.
Durante la guerra il campone del Castelluccio era diventato addirittura un campo d’aviazione, fino a che una ‘cicogna’ – così chiamavano un leggero monoplano da ricognizione – non catapultò atterrandovi e ponendo ingloriosamente fina all’attività aeronautica degli Alleati nella piana di Castelluccio.
Perchè noi in Sambro ci si andava d’estate quasi tutti i pomeriggi. Appena mangiato, pantaloni corti e canottiera, si volava scalzi giù a Musolesi dove ci aspettavano gli amici. E con loro ancora giù alla briglia del Castelluccio o in pozzi costruiti da noi con sassi e fango, alla Barléda o alla passerella. A tuffarsi – l’acqua era tiepida e limpida, e si vedevano i pesci fuggire negli anfratti e le sanguisughe appiccicate ai sassi striati di melma, in attesa – a spruzaiér e nuotare alla cagnina, lo stile animalesco consentito dal limitato specchio d’acqua a disposizione.
E poi scorpacciate di ciliege, di rusticani, di pere e mele acerbe, di more…Le libellule zigzagavano azzurre fra i salici delle rive e a sera le rondini sarebbero sfrecciate a pelo d’acqua a bagnarsi le piume del petto.
Poi il ritorno lungo l’erta, con alle spalle il sole che s’avvicinava al tramonto fra Monte Armato e la Piana dei Monti. Ma al ‘voltone’ tirava sempre una corrente d’aria fresca e lì, sudati per la salita, ci appoggiavamo al muro a prendere fiato. Dalla porta accanto compariva a volte Ida ed Rubérto: “A vlìv un mèscuel d’acqua? / Volete un mestolo d’acqua?” Tornava col secchio e il mestolo in rame: a turno lo portavamo alla bocca e l’acqua ci rigava la gola e il petto. Poi ancora su, in paese: i rondoni impazziti vorticavano in cerchi larghi attorno al campanile e le strida riempivano il cielo. Fra poco Avréglio. attaccato alla corda della mezzanella, avrebbe suonato l’Ave Maria e ci saremmo accovacciati sulle scale di casa, ancora calde del sole, ad ascoltare le chiacchiere delle donne e i meravigliosi fatti dei vecchi.
E vecchioni oracolari, setolosi e candidi di tempo, ce n’era più d’uno a Musolesi. Seduti sulle scale di casa e sul muretto di lato alla strada o allungati sulle lastre dell’aia, apostrofavano i passanti con sapida ironia. Passava lento un coetaneo che veniva di via.
E uno di loro: “Alòra a sì ancòra viv? I m’avéven dét c’a siri bèle andà...(Allora siete ancora vivo? Mi avevano detto che eravate già andato…)
E l’altro: “S’a campé vò, a chèmp énca mé. (Se campate voi, campo anch’io).
Perchè i montanari avevano lingue affilate al motteggio e la parola ‘spicca’, cioè pronta, vanto riconosciuto nella cultura orale del mondo contadino. Per questo alcuni personaggi di Musolesi sono rimasti nella memoria della comunità fino a ieri, cioè fino alla generazione nata innanzi l’ultima guerra: Piròt, patriarca pacioso; Télli, fantasioso folaio che, emigrante in Brasile e poi in libia, ne aveva riportato fatti strabilianti; Rumanàz, affabulatore filosofo, che anche sul letto di morte ebbe la parola giusta; Funsìn di Lenzi, le cui ‘scarnie’ divertivano per giorni lui e il borgo (un po’ meno chi ne era coinvolto). E poi, più giovani, Vitòri ed Nando, Augòsto e Iusfìn ed Télli, Gustìn, Gualtiero…Un’eco dei loro detti e fatti può avvertirsi in due romanzi, Ugone eroe e Ai cancelli del vento, che ho inteso scrivere proprio perchè quel mondo non scomparisse con la mia generazione (mi si conceda la citazione personale, obbligata).
Ma con quelli di Musolesi capitava anche che si facessero le sassate. Quando ancora la montagna era popolosa di contadini e di bestiame, e anche le prode dei fossi e delle cavedagne venivano vangate e seminate per ricavarne qualcosa. Perchè a Musolesi c’era tanta gente, fra proprietari che lavoravano in proprio la terra (magari servendosi di braccianti al bisogno), proprietari che se la facevano lavorare a mezzadria e contadini mezzadri (i Manara, i Venturi, i Lumini, i Rinaldi…). E dunque tanti ragazzi, appena adolescenti o già con la prima barba. Orgogliosi d’essere di Musolesi e di contrapporsi a quelli di San Benedetto. Così che una domenica pomeriggio, fra noi e loro – non ricordo come e perchè, ero poco più che bimbetto – si comincio a fér al saséd, che era modo antichissimo d’affrontarsi a distanza. Loro venivano su da Musolesi e raccoglievano i sassi direttamente dalla via, che allora era solo inghiaiata. Nonostante dovessero salire – erano in molti e organizzati – ci respinsero su oltre la Cooperativa e fin quasi a Ca’ dei Merciai. La sassaiola era fitta e paurosa. Noi rinculavamo, possimi a una disfatta vergognosa, quando arrivarono rinforzi da San Benedetto alto e riuscimmo a ricacciarli in discesa e a disperderli. Cose oggi inimmaginabili. Eppure ci si voleva bene, ma quando c’era di mezzo l’identità borgatara s’accendevano le rabbie più cieche. (Nell’immediato dopo guerra i ragazzi di Musolesi avevano messo insieme addirittura una squadretta di calcio – il capitano era Cècco  e ci scontravamo con eguale ardore senza spargimento di sangue).
A conclusione di questo ricordo di Musolesi, voglio scrivere qualcosa sul pilastrino della Pieve del Cucco e sul suo strano toponimo. Fu restaurato qualche anno fa da Cècco ed Muslès e da Brunone, che ricoprirono il tetto con due nuove lastre di arenaria e ripararono crepe e fessure: ma la fattura massiccia e di sasso eroso dal tempo lo indica con sicurezza il più antico delle vallate intorno.
E anche il nome, che deve a un sito appena sopra: la Pieve del Cucco. Pieve indicava nel Medio Evo una chiesa importante, con fonte battesimale, che poche avevano nel XVII secolo. Dubitiamo pertanto che un luogo possa avere tale nome senza congrui motivi (anche a Montorio esiste un podere nominato la Pieve, a testimoniare che vi sorgeva fino al 1600 la prima chiesa, poi distrutta da una piena del Sambro). Pieve del Cucco significa dunque chiesa del cucuzzolo, perchè ‘cucco’ nel nostro caso – lo affermano gli studiosi di toponomastica – vale appunto montagnola, greppo.
La prima antica chiesa di San Benedetto che in un documento del 1378 è detta di Qualto, sorse forse lì, sulla sponda del Sambro, in faccia ai castagneti di Qualto – al cui Comune apparteneva – fra campi volti a sud e per questo disboscati, magari dai benedettini. E una tenace tradizione orale, evidentemente vecchia di secoli, lo afferma.

Adriano Simoncini